RECCO

ASSOCIAZIONE SPORTIVA "LE TRE PUNTE"



ARTICOLI

A cura di Giuseppe Massari

Paura nelle “Bocche"

(Racconto)

Non fu tanto il rombo costante del motore del traghetto che avvolgeva l’angusto spazio della cabina di poppa quanto l’incontenibile eccitazione che provavo a essere in viaggio a non farmi dormire. A bordo, in quella notte di fine giugno, rimasi per ore in coperta fissando la luna piena compiere il suo percorso nel cielo per poi sparire pian piano come inghiottita dalla superficie dello specchio d’acqua immobile in un tripudio di schegge dorate e tremolanti.
Le prime luci del mattino svelarono le forme dell’isola e l’inizio della salita dell’astro a est illuminò definitivamente rocce e mare all’ingresso della nave nell’ampio golfo di Olbia.
Destinazione Palau, cittadina in pieno sviluppo del nord della Sardegna: Un porto, case edificate e cantieri quanto basta da far presupporre, in pochi anni, un raddoppio dell’abitato; di fronte l’isola della Maddalena con intorno il suo arcipelago formato da cinque gioielli di pietra incastonati su una montatura di un azzurro irreale accarezzati dall’onda spumeggiante portata dal maestrale; Il granito poi  prosegue a tramontana, in mare, con picchi e risalite sommerse, per riapparire in Francia formando le prime propaggini di un’altra grande isola, la Corsica.
Proprio una di quelle propaggini sommerse, ai confini delle acque territoriali italiane, trovate dopo  giorni di ricerche meticolose dell’estate scorsa quando, in una settimana, lasciai uno stipendio in carburante scandagliando a palmo a palmo il mare delle “bocche”, era il mio obiettivo per quei pochi giorni da passare in Sardegna.
L’isola, impaziente, attendeva i primi chiarori e la chiglia fendeva un mare già stranamente increspato. Previsioni meteorologiche incoscientemente non rilevate. Mentre l’alba non aveva ancora incominciato a inventarsi quel quotidiano capolavoro, da stemperare nel cielo mattutino che mi aspettavo di lì a poco di ammirare, il mio corpo si fuse con l’acqua increspata da quella brezza che visibilmente stava aumentando. Nessun rumore, pochi movimenti delle lunghe pinne e poi giù immobile in caduta libera verso il fondo.
Il grosso pesce bruno aveva appena lasciato le profondità degli abissi, dove aveva svernato a una temperatura costante sino all’arrivo del messaggio atavico che lo spingeva a risalire verso la luce e il tepore delle acque superficiali.
Un pinnacolo di roccia, affiancato da due ciclopici monoliti appoggiati l’uno all’altro circondati sui quattro lati dal blu intenso di un fondale inviolabile, formava l’unico riparo di quella risalita sconosciuta. Ci incontrammo li: lei l’aveva appena ucciso e il grosso polpo, appena ingoiato, le aveva reso lente le funzioni di protezione. Si accorse, comunque, che, dall’alto, da dove il chiarore del mondo di fuori stava aumentando, qualcosa o qualcuno era penetrato nel suo elemento ma ora i suoi recettori non lo individuavano più. Un’ombra aveva raggiunto, ormai, il riparo proprio sul sommo formato dai due monoliti.  Poco più sotto, nella crepa tra le due formazioni rocciose che si perdeva nell’abisso, il pesce, allarmato, ebbe un attimo di esitazione nel lasciare il confortevole strato di acqua calda per fuggire nell’irraggiungibile gelo delle profondità. Non si rese conto di nulla, un sottile dardo d’acciaio le si conficcò dietro l’occhio destro e il chiarore del mattino, che si percepiva sempre più intenso, si spense di colpo.
Un’”ochetta”, in superficie, mi picchiò sul viso e nella luce, ormai conclamata, di un’alba di piombo, il gommone, ancorato poco lontano dal sommo, sul fondale che iniziava a risalire, mi sfilò invisibile sul fianco, a qualche decina di metri, spinto da quella brezza che, nutrita dalla forte e improvvisa perturbazione incombente, si era trasformata in pochi minuti in raffica urlante. Quando lo vidi era ormai troppo tardi. Terrore e panico non m’impedirono di reagire a quella situazione assurda a cui non ero assolutamente preparato.
L’imbarcazione era ormai lontana, persa, mentre il pesce ancora infilato sull’asta ripiombava sul fondo con la mia cintura della zavorra agganciata in bocca, vincolato all’arma, galleggiante in superficie, attraverso il nylon del capiente mulinello completamente srotolato.
Abbandonando tutto cominciai a nuotare come un matto, con il cuore che batteva all’impazzata, nella direzione del vento e della barca in fuga, imprecando e piangendo per la gravità della situazione in cui, mea culpa, mi stavo trovando. Continuavo a pinneggiare spinto dall’onda e dal vento, non riuscendo a capire come l’ormeggio avesse potuto cedere con quella gassa perfetta che facevo ogni volta in modo automatico.

La pioggia rada di poco fa ora è scroscio impenetrabile che mi mitraglia la schiena e nasconde l’arcipelago alla vista; Sono fagocitato da un mondo liquido che mi avvolge e cerca di possedermi ma non mollo e continuo a nuotare per non so quanto nel fumo d’acqua che si sta scaricando sul mare ma sono sicuro che la direzione presa mi porterà prima o poi su Razzoli.
Improvvisamente la pioggia sembra calare e Razzoli appare lontana alla mia sinistra.
Non ci potevo credere, potevo vedere, in lontananza, un puntino scuro che appariva e scompariva nella buriana che stava visibilmente affievolendosi…. Una barca.
La velocità con la quale il puntino s’ingrandiva a mano a mano che il mio nuoto affannoso mi portava verso di esso lasciava ben sperare nella direzione del mezzo. Ormai si poteva vedere chiaramente che era un gommone ma adesso ero sicuro era fermo, ancorato, il mio!
Da quel momento il tempo che mi ci volle per raggiungerlo, in favore di corrente, non fu molto e quando con un urlo salii a bordo, capii che nella sfortuna ero stato miracolato. Nessuna gassa si era sciolta ma, semplicemente, la piccola ancora non si era aperta sul fondo e il colpo di vento aveva spostato il mezzo dal perimetro della risalita lasciando ciondolare il tutto sino a che una provvidenziale dorsale di roccia aveva fermato la sua corsa.
Tutto si era risolto in poco più di tre ore e l’onda lunga di quell’improvvisa tempesta, ormai placata quasi completamente, non m’impedì, al ritorno, di provare a passare sulla verticale del mio sommo. Incredibilmente scorsi subito il lungo abralete che galleggiava. Poco dopo, all’estremità opposta della sagola, i diciotto chili di cernia e i cinque di piombo stavano faticosamente salendo verso la superficie.

RECCO 09

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